GOOD MORNING VARANASSI!

Ancora una volta dentro l’asfissiante e interminabile labirinto di viuzze della Old City di Varanassi. Non c’é uscita, é un frastuono di colori, negozi, facce, animali, risciò, a mala pena arrivo in prossimità del Gange, dove trovo una piccola casa, dipinto in rosso sul muro leggo “Homy Paying”, entro chinando il capo e parte del dorso, come un pellegrino durante i puja per l’adorazione di Shiva. La porta é talmente piccola che fatico ad entrare, quasi a carponi, come un animale con le mani al posto delle zampe. L’interno é scuro, l’odore pungente dello sterco si mescola al sapore dolce del latte appena munto. Bruciano gli incensi. Nessuno appare. Dall’alto di una ringhiera di ferro, penzola una piccola luce gialla, ritaglia nel suolo l’ombra di una grande vacca, poi altre sagome simili cominciano a disegnarsi sulla parete, le sottili forme diventano piene, insieme al muggito degli animali la voce del padrone, che mi da il benvenuto! Sono in una casa indù, disponibile c’é una stanza con tre letti. É un piccolo dormitorio. Gli dico che voglio spendere poco! Mi dice 100 rupie, 1 dollaro e mezzo! Salgo al primo piano, le scale sono talmente strette che bisogna entrare di sbieco, sembra un patio andaluso, con il tetto aperto, che da sul cortile dove le vacche pascolano libere all’interno della casa. “This is my God,” (Questo é il mio Dio), dice Neeti Prakasch Dewedi, il proprietario, puntando il dito sugli animali, che ad uno uno sfilano sotto i suoi occhi come sacerdoti durante una processione. “Namaste a Homy Paying” sussurra, timidamente. Le vacche sacre sono silenziose, bisogna fare in punta di piedi, per non disturbare, domani saranno munte, sono io lo straniero, mentre Neeti, mescola una porzione di acqua e cereali da offrire a Benz, un enorme bufalo nero, che mi guarda dritto negli occhi in tono di sfida, io faccio altrettanto, ma lui é + forte, sta al comando, scalpita, ruggisce e io abbasso lo sguardo in segno di obbedienza, é lui che comanda… Neeti, indossa un sari bianco, come una sottana che disegna il corpo, mi mostra il maestoso Gange che scorre a strapiombo dal terrazzo. Domani é tempo di puja, i morti bruciano in continuazione, 24 ore, sono cremati come i vichinghi, non su una barca, ma sulle imponenti scalinate delle sponde, sopra castelli di legna, come altari, sapientemente pesata per bruciare tutto il corpo; ogni pezzo di legna ha un prezzo, una qualità, una sua storia (bausen wood, mango wood…), servono 300kg di legna x bruciare un defunto, circa 6000 rupie o 3000 rupie a seconda del suo stato sociale; se poi é un Dalit, un’intoccabile, talmente povero, la legna non e’ sufficiente e il corpo brucia a metà, il resto viene ingoiato dal fiume e, la corrente lo trascina a est, alimentando la ferocia delle tigri del Bengala. I corpi bruciano in fila indiana, uno dietro l’altro, come gli schiavi di una caverna, condannati alle fiamme dell’inferno e forse al paradiso, perché tutto é una cosa sola, quello che distrugge il corpo, ridà libertà all’anima. Nel Ghat funerario di Manikarnika, l’odore é putrido, come il peccato, viene spazzato via da violenti gettiti d’acqua come quello dei pompieri che lavano le sponde dopo un incendio, la cenere si mescola al dolce profumo del bucato dei panni appena stesi al timido sole, mentre persone fanno le abluzioni, altre pregano, bagnano 3 volte il capo nelle acque, compiono il “ganga aarti”, l’adorazione, mentre sul fiume sfilano le canoe insieme alle vacche, come in un acquarello di colori pastello e, il vento, che trasporta la cenere dei morti come la sabbia del deserto, soffia sulla quiete del grande Gange.

In un angolo della Homy Paying stanno sedute 20 donne, tutte colorate dalla testa ai piedi, gli anelli che penzolano dal naso, i piedi scalzi, il terzo occhio quello del 7 chakra, il “kundalini chakra” é scolpito in mezzo alla fronte, é l’interconnessione terra-uomo e universo. Hanno un bambino nelle braccia, siedono nella posizione del loto, i bimbi sono immobili, entrano in una stanza dove c’é un Brahmani seduto su una stuoia, prende un cordone, lo alza al cielo, disegna un cerchio con la mano, per avvolgere cielo e terra, annoda la corda al collo del bimbo, emette un muggito, forse una preghiera, per farlo crescere forte e protetto!
Neeti mi offre una scodella rossastra in terra cotta, dentro c’é il Curd, del latte cagliato, come una ricotta artigianale fatta in casa, aspra e dolce, come i sapori dell’india, scende a fatica, poi dolcemente, mentre approdano delle barche sulla riva del Gange, grandi boat people di sari colorati, fedeli, prima della messa della domenica; altre persone aspettano sedute sugli scalini, altre giocano soldi come pagani nel tempio, altre osservano lo scorrere del tempo con decine di cani stesi al sole, insieme a cumuli di immondizia che bruciano gli angoli delle case, i panni stesi al sole come bandiere tibetane che infondono il sapone del bucato. Un fornello é acceso, appeso come un alambicco al muro, scalda il the del mattino; delle capre siedono in contemplazione, una vacca pascola sulla sabbia umida del fiume, un’altra s’aggira tra i roghi dei falò dei corpi interi che bruciano, dei bambini sguazzano nell’acqua con il sari avvolto tra le gambe come quello di un lottatore di sumo, saltano nel fiume in mezzo all’immondizia galleggiante, appesi ad una corda piantata sulla riva, dove l’acqua é + alta; dei sari lavati sono distesi per terra come tappeti persiani nel sontuoso palazzo del Taj Mahal, quello in cui l’uomo ha scolpito “una lacrima di marmo sulla guancia dell’eternità”; un uomo snello piscia sul muro, mentre l’urina scende al fiume, un’altro corpo brucia, lentamente, un fumo bianco come l’anima si dissolve, insieme ai sorrisi dei familiari dipinti sulle labbra, un’altra anima si é liberata, pregano con gli occhi rivolti al cielo x ottenere il “moksha”, che spezza il ciclo di reincarnazione del karma e così l’anima é liberata dalla prigione del corpo x sempre.
La vita sul fiume é quella di una città nella città, un microcosmo silenzioso e caotico, profumato e puzzolente, le Stupe Buddiste insieme ai templi Mandir Indù, su cui siede un uomo come sentinella sul monte, ascolta il tuc tuc di un vaporetto che scalcia le acque. Medicanti, santi, suonatori, procacciatori d’affari, turisti di razza, di puro sangue, in questo angolo perduto del Mondo, dove le scritte in inglese e sanscrito sono come arabeschi sui muri. In lontananza il dolce din-din della campana del tempio indù chiama i pellegrini, come quello del mujaheddin sul minareto; giovani con i sandali di cuoio, passeggiano tenendosi x mano come compagni di scuola, altri muovono la testa al contrario, da sx a dx, per dire Si; dei cani si azzannano, altri si scambiano effusioni; una fila di uomini sbatte i panni selle assi del fiume; bambini giocano a cricket al posto del calcio, il suono duro del legno, duro come la loro vita, colpisce la palla, rimbalza x terra e scivola via; una mandria di grossi bufali si lavano, come durante le abluzioni, un uomo in mutande gli strofina la pelle, che brilla come lucido sulle scarpe, poi massaggiano la schiena al muro, affilano le corna sul cemento, sono pronti x la cerimonia del tramonto. Anch’io decido di fare un massaggio sulla scalinata del Gange, in prossimità di Assi Ghat, per riprendermi dai dolori e dai crampi. Il massaggiatore, é un portatore di sacchi, dice che ci vogliono 30 rupie, 1/2 dollaro x rimettermi a posto il collo, mi siedo su una stuoia bianca, quelle che si usano x portare il riso, a fianco di 2 grosse vacche distese pacificamente, mi dice di usare la loro pancia come schienale. Chiudo gli occhi, il massaggio é grezzo come la terra, resisto a fatica alla pressione delle sue mani callose e robuste come tenaglie. Il dolore é forte, ma il massaggio dissipa un groviglio di pensieri, poi di colpo vengo svegliato da una pioggia fitta e spessa. Quando riapro gli occhi, una vacca é in piedi, con l’ironia negli occhi, zampilla urina come l´acqua di una fontana.
Inciampo in un grande albero, sembra una fromager africana, ma forse é un albero di fico, come quello sacro del Bodhi, le radici come piedi conficcati nel cemento, dicono che la natura viene prima dell’uomo, le fronde dei rami come braccia umane offrono riparo a un pellegrino in sari arancione, incrocia le gambe e ad occhi chiusi, cerca il Buddha, ma solo Siddhartha a Bodhgaya, nel Bihar, ha trovato l’illuminazione e scoperto la via del Buddismo.
Da lontano inizia una festa, sembra il suono dei fuochi di artificio, non ci sono colori, solo esplosioni simili a petardi, scoppiano a intermittenza come i botti dell’ultimo dell’anno, sono le teste dei morti sui cumuli di legna che scoppiano come pentole a pressione, bombe di calore e aria.
La notte sta x calar e piomba il freddo sul Gange, i corpi continuano a bruciare ininterrottamente, 24 ore. La folla si accalca x il freddo, si scalda le mani sul fuoco, beve avidamente il the nero mescolato col latte appena munto, mentre una mandria di bufali neri come la pece, con le corna affilate a coltelli, impassibili, statutari come bronzi, sono sdraiati in posizione di loto da perfetti sacerdoti funerari sui piani alti della scalinata, sotto 6 grandi falò, si lasciano massaggiare dal calore dei corpi che bruciano. Le fiamme sono alte, il pulviscolo del carbone che scoppietta come le stelline di carnevale, accarezza le guance della luna, una festa di colori marcati e pieni che brinda alla vita del corpo che finisce e spezza le catena della caverna in cui l’anima é prigioniera.
E il possente Gange, scorre lento e inesorabile, con quel dolce melanconico sorriso tra le pieghe delle acque, simile alla Gioconda, tutto osserva in silenzio, con il vento fermo come in un cimitero dopo la tempesta, quando i corpi bruciano e le fiamme incendiano l’azzurro del cielo, perché un’altro giorno sta x iniziare. GOOD MORNING VARANASSI!

m.b.

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